ITINERARI DI CREAZIONE CONDIVISA: IL TEATRO COME SPAZIO APERTO DELL'AGIRE E DELL'IMMAGINARE

“Fare spazio e dare casa” al teatro all’interno della progettualità degli insegnanti curando il complesso rapporto tra questa forma espressiva e le proposte educativo-didattiche. Un’esperienza di formazione che ha fatto del teatro a scuola una pratica dello sguardo e dell’azione creativa volti a promuovere interazione sociale.

 

 


di Alice Bescapè e Silvia Cavalloro


 

“Signore e signori
si aggira in Trentino, di scuola in scuola,
un agitatore, un disturbatore,
un rompitore di uova nel paniere!

Si traveste, dice di essere quello che non è
e riserva molte sorprese.

C'è del caos?
Eccolo lì.
Ci sono mani e piedi in volo... è lui!
Bestie, personaggi, animali antropomorfi si sono manifestati nei vostri luoghi?
C'è il suo zampino.
(Pure se le macchine, gli aerei si comportano in modo strano)

Avete trovato strane costruzioni negli angoli delle vostre scuole...
È passato di lì!
Biglietti e bigliettini, disegni, costumi, maschere e scatole da trasloco:
siete sulle sue tracce.

E se, infine, avete trovato educatrici con un diavolo per capello, ma un bellissimo sorriso,
non ci sono dubbi.
Lo hanno incontrato”.




 

Alice: Questo è stato ciò che ho potuto comporre di getto dopo settimane in cui ho condiviso l'opportunità di scrivere sulla vostra rivista degli anni di formazione presso alcune scuole equiparate dell’infanzia della Federazione. La memoria è andata a quel “protagonista” che ha dato vita a tante proposte formative. Molte insegnanti, infatti, si sono
impegnate con me a fare spazio e dare casa a questo personaggio. Anzi a questo “eccentrico”[1]: il Teatro.

Silvia: L’espressione che hai usato, “fare spazio e dare casa” al teatro all’interno della progettualità di scuola, richiama l’idea di un complesso rapporto tra questa forma espressiva e le proposte educativo-didattiche. Eppure rappresentazioni teatrali, drammatizzazioni coordinate dalle insegnanti o narrazioni spontanee che prendono vita autonomamente tra bambini fanno parte della tradizione didattica in particolare proprio della scuola dell’infanzia. Ma l’aver definito il teatro “eccentrico” rende chiaro che tu stai parlando di un modo “altro” di intendere e di agire la dimensione teatrale e che ci stai invitando a trovare strade originali per dare voce a un modo diverso di fare drammaturgia con i bambini a scuola. A quale tipo di teatro pensi sia importante allora “fare spazio e dare casa” a scuola?

Alice: Il teatro ha sempre abitato i luoghi dell’apprendimento e della crescita delle persone. È sempre stato presente anche quando non c’era la scuola nella forma odierna, a partire dalla tragedia greca. Poi la scuola, nei secoli, ha colto le enormi potenzialità di questa arte per l’educazione e la formazione. Anche nella storia più recente, fin dagli anni ’70, è stata una delle materie di attenzione del dibattito educativo, perché vista come veicolo di possibili sperimentazioni e di ipotesi di riforma rivolte al sistema scuola tutto. Si sono aperti così anche canali di formazione nuovi: professionalità come educatori si rivolgevano alla formazione per operatore teatrale, e questa formazione non era più percepita come un campo esclusivo di chi ha fatto della sua carriera il mestiere dell’attore. Queste nuove tipologie di formazione teatrale promuovevano una pratica dello sguardo e dell’azione creativa rivolto al sociale, con lo sviluppo – tra le tante sperimentazioni – di quella che è stata chiamata drammaturgia collettiva che promuoveva partecipazioni allargate alla costruzione del prodotto da mettere in azione, promuovendo una co-autorialità, anche se poi non tutti gli “attori” andavano in scena.

Silvia: Un teatro quindi, quello a cui fai riferimento, che non è memorizzazione e ripetizione di una parte assegnata e di un ruolo agito singolarmente, ma ricerca espressiva da agire e condividere socialmente, in gruppo.

Alice: Sì. Il modello di teatro a cui faccio riferimento ha le radici in questa accezione di esperienza collettiva e partecipata. Un momento di creazione condivisa con modalità molto aperte. Intendo dire che lavorando con il corpo, con il gesto, con la voce, lavorando con le storie e con l’interpretazione delle storie – dove per interpretazione delle storie intendo sottolineare il fatto che ognuno ritrova nelle storie ciò che conosce e ciò che lo può portare dal noto all’ignoto, ciò che gli risuona come esperienza già avvicinata ma non esaurita – tutti questi elementi vengono messi in gioco in un set facilitato dall’insegnante per permettere ai bambini il coinvolgimento attivo in un processo di conoscenza e di crescita. Si tratta di un agire sotto l’egida del gioco, nel quale ci si muove con vincoli di contesto molto chiari, ma che allo stesso tempo è un agire che apre spazi di azione più ricchi di immaginazione rispetto, ad esempio, a un gioco motorio.

Silvia: In che senso apre spazi all’immaginazioni più ricchi, diversi dal gioco di finzione o dal gioco motorio?

Alice: Da un punto di vista “tecnico” il teatro è un modo per fare un mondo che non c’è. Un modo fortemente umano perché la sua materia sono gli esseri umani. È una messa in prova di uno spazio-tempo alternativo, di nuove possibilità di relazione, di nuove occasioni di essere persone, di sollecitare dimensioni che per motivi più vari non sono manifeste nella vita quotidiana. È spazio protetto, vitale. Può portare fuori l’inedito, sostenere i bambini ma anche gli insegnanti in quella che poi è la vita nel quotidiano. Perché le scoperte che il teatro ti fa fare è un po’ difficile confinarle in recinti troppo stretti.

Silvia: Quindi stai dicendo che il teatro permette di mettere in azione situazioni che nascono dalle esperienze quotidiane, le attraversano, le trasformano, le rielaborano per permettere poi di ritornare a quelle stesse esperienze con strumenti di maggiore lettura e consapevolezza.

Alice: Fare una esperienza di laboratorio teatrale significa concedersi di giocare con il corpo, con l'immaginazione, con lo spazio e con gli altri, in un campo che assomiglia molto alla vita, ma non coincide con essa. Vivono i bambini (ed essi stessi si fanno attori con sé stessi attraverso un sentire corporeo ed emotivo, col pensiero e la mano, che vanno assieme) in una situazione che tiene connesse l'esplosione dell'energia vitale e il poter costruire un progetto comune. Il laboratorio vuole favorire questo accordo interiore tra il fare e la consapevolezza di questo fare. Il teatro fa esperire potentemente la coincidenza di pensiero e azione[2], il sentirsi un essere psico-corporale. Permette di giocare con il mondo smontandolo e rimontandolo. Permette, pur stando legati alla propria esperienza, di aprire strade non ordinarie per essere altro. Per gli insegnanti si tratta allora di allestire contesti educativi che nutrano l’esplorazione di questi mondi possibili. Vuol dire saper rimettere in circolo nella routine quotidiana alcuni elementi del teatro – soprattutto lo sguardo, ma anche lo stile di conduzione o il tipo di spazio usato, e il tempo, categoria teatrale e pedagogica fondamentale – che investono completamente l’educatore.

Silvia: Che cosa implica tutto ciò? Cosa sollecita questo montare e smontare? E quale ruolo gioca la fantasia, elemento costitutivo del teatro e in particolare del teatro per bambini, ma che spesso vediamo unicamente connessa, in maniera forse semplificata, ai temi del magico e del fantastico?

Alice: Immaginare è tutt’altro che un’operazione mentale slegata dalla realtà. Ha sempre rimandi alla vita concreta e reale. È in essa radicata, con questa dialoga, se ne avvicina e se ne allontana, permettendo, attraverso la generazione di nuove storie, di risignificare l’esperienza. Riusciamo a produrre nuove storie – ma anche nuove camminate, nuovi gesti e altri elementi che appartengono più prettamente alla grammatica teatrale – a partire da ciò che siamo, da ciò che fino ad ora abbiamo potuto esperire. Ma lo sguardo competente e facilitatore di chi accompagna nell’esplorazione – ad esempio lo sguardo dell’insegnante o di chi guida un laboratorio teatrale – è fondamentale per potersi muovere verso il meno noto, cioè verso movimenti che per i motivi più svariati appartengono meno a un bambino e appartengono magari di più a un compagno e che è possibile scoprire e provare a reinterpretare, per farli propri, grazie all’osservazione e grazie alla guida dell’insegnante o all’osservazione degli altri attorno a noi.
Uno dei meccanismi che funziona – poco valorizzato, anzi disincentivato – è copiare. Un copiare che però non deve ridursi a esecuzione ripetitiva né al tentativo di arrivare a una forma identica all’originale. È invece un “copiare” che passa attraverso l’assumere. Un appropriarsi, un “prendere” dall’esperienza e dalla forma dell’altro per diventare una nuova espressione di sé che prima non c’era.
È un lavoro che mette in discussione il proprio modo personale di esserci, di muoversi, di raccontarsi, di operare collegamenti tra le situazioni. Attraverso la socializzazione questo processo diventa patrimonio collettivo, grazie all’incontro della propria esperienza con le modalità costruttive degli altri.
La fantasia è un po’ come l’aria, è ovunque. Ma come la possiamo utilizzare? Che cosa ci dice questa metafora della fantasia come aria che si concretizza? Ci dice della possibilità di nutrirsi di ciò che i bambini ci portano. Ma per far questo bisogna che le insegnanti abbiano una forte base culturale di conoscenza di quelle che sono le forme simboliche, artistiche, narrative della cultura umana e quindi far “cortocircuitare” ciò che affiora e che quindi può prendere una gradazione molto lontana dalla realtà o molto vicina ma è sicuramente un elemento che nel teatro, che non è ripetizione ma palestra di crescita, può accadere.

Silvia: Hai fatto riferimento alla necessità di poter disporre di una forte base culturale sulla quale è necessario poter contare per leggere, valorizzare, ampliare i contesti di esperienza dei bambini. Come hai curato questa dimensione nella formazione? Quali strumenti ti sono stati utili per aprire consapevolezze nuove?

Alice: Ad esempio ho trovato interessantissimo tutto il lavoro fatto grazie agli albi illustrati. Da alcuni anni ho inserito questo strumento espressivo come trampolino per generare situazioni creative, alternative, originali, agganciandomi e sviluppando sia la dimensione testuale sia quella legata alle immagini per stimolare, a partire da materiali di qualità, quelle che io chiamo “fantasmagorie”. Gli albi illustrati di qualità offrono un buono sfondo immaginifico da cui far emergere nuove immagini e prefigurazioni e portano linfa nuova alla progettazione dei percorsi formativi e all’agire dentro un laboratorio teatrale. Il laboratorio teatrale ci connette infatti al mondo delle cose e delle relazioni, ci fa giocare con quel mondo smontandolo e rimontandolo in uno stesso tempo, in uno stesso spazio, insieme ai nostri compagni di laboratorio. Ci fa stare nelle pieghe del mondo per esplorarne la sua costituzione, per esplorarne la nostra possibilità di essere in relazione con tutto questo, per prefigurare – “immaginare” appunto – la nostra possibilità di collocarvisi dentro.

Silvia: Un’operazione dunque non limitatamente riferita alla riproduzione, alla riproposizione o all’esercitazione in vista una determinata performance, ma processo di reinterpretazione, socialmente costruita in interazione con gli altri, per nuove significazioni. La dimensione del pensiero e dell’azione collettiva è dunque fondamentale nelle tue proposte di laboratorio teatrale a scuola.

Alice: Sì. È questo l’orizzonte nel quale è interessante muoversi. Nel teatro si smonta e si rimonta il mondo, e l’esperienza che ne abbiamo potuto fare, perché in qualche modo riusciamo – come spiegavo prima – a produrre nuove storie e nuovi gesti a partire da ciò che ciascuno di noi è, ma anche da ciò che siamo come gruppo. Copiare è il meccanismo principe del teatro che non è mai esecuzione, ripetizione, ma è invece appropriarci dell’incontro con ciò che è sconosciuto. Questo è maggiormente evidente rispetto a processi di costruzione collettiva che ci permettono di mettere in discussione il nostro modo personale di essere, incontrando le modalità interpretative e costruttive degli altri, per esperire e prefigurare mondi altri, ma condivisi. Coltivare questa dimensione collettiva significa sostenere la crescita dei singoli e dei gruppi. Il teatro è per essenza intersoggettivo. Ha tanti dispositivi e meccanismi di creazione collettiva. È lavoro corale dove si fa e si fa insieme, non a schiera o in sequenza, ma perché tutti vengono messi nell’agio per aprirsi alla ricerca.
Con le scuole della Federazione abbiamo fatto un lavoro in cui abbiamo messo in discussione il modo personale di ciascuno di esserci, di muoverci, di raccontarci di mettere dei collegamenti tra le situazioni. Lo abbiamo socializzato ed è diventato un patrimonio collettivo perché abbiamo incontrato le modalità costruttive degli altri. Su questo terreno fertile il linguaggio teatrale può essere facilitatore per la costruzione di un mondo che magari si allontana in parte dalla nostra iniziale visione personale, ma che è molto più condiviso.

Silvia: Promuovere il passaggio da un’elaborazione personale a un’elaborazione collettiva condivisa è dunque fondamentale e dialoga perfettamente con l’approccio socio-costruttivista promosso dalla Federazione in questi anni nelle nostre scuole. Ma sostenere innovazione all’interno di una didattica che tradizionalmente ha visto molto spesso la drammatizzazione agita nella sua dimensione di azione individuale o esito del susseguirsi di interpretazioni individuali è complesso. Come aprire ai nuovi scenari che ci stai proponendo?

Alice: Sicuramente il teatro dispone di metodologie e strategie per la costruzione collettiva. La dimensione corale è presente fin dalle origini antiche della drammaturgia. Il coro può essere anche suddiviso in sottocori aperti quindi alla proposta del lavoro in piccolo gruppo, contesto nel quale i bambini possono essere sostenuti nel ricercare e creare personaggi vari, nel costruirli prima fisicamente attraverso l’esplorazione di gesti e movimenti e poi teatralmente, agendo insieme e contagiandosi per dar luogo alla dimensione del teatro che è espressività e corpo.
Un’altra possibilità è offerta dalla costruzione di piccole storie generate attraverso meccanismi di facilitazione che permettono di condividere una narrazione che nasce insieme e alla quale ciascuno può dare un apporto. Apporto che può essere più o meno regolato dall’insegnante e che è importante preveda non solo l’elaborazione verbale ma anche la sua trasposizione sulla scena. Un’esperienza di questo tipo l’abbiamo fatta ad esempio a Bolognano, costruendo uno spettacolo nel quale andavano in scena tanti bambini per una rappresentazione che concludeva un progetto di tre anni. In quell’occasione avevamo coinvolto i gruppi nella costruzione collettiva delle scene a partire da quanto i bambini avevano vissuto nelle differenti fasi del percorso. Attraverso piccole prove nelle quali tutti avevano potuto sperimentarsi in ruoli diversi e con compagni diversi, coinvolgendo i bambini in riflessioni collettive su quali erano stati gli aspetti più significativi e partecipati del progetto triennale, si sono scelte insieme le proposte più convincenti e adatte ad una rappresentazione. Questo, come accennavo prima, legando subito la proposta di contenuta a una sua proposta narrativa e di azione teatrale in modo che si potesse decidere insieme ai bambini – a seguito di una prima messa in scena da discutere in gruppo – quale fosse ad esempio la coppia che funzionava meglio per il lavoro collettivo di tutti riconoscendo differenze e ricorrenze. Il criterio che ha guidato le scelte collettive non è stato dunque chi fosse il più bravo, ma quale soluzione funzionasse meglio per il pubblico e per il gruppo. I bambini si rendono conto molto bene di questo ed è capitato che una coppia recitasse scene pensate da altri bambini.

Silvia: È importante quindi creare le condizioni perché tutti possano sperimentarsi alla luce di un articolato progetto comune, che non è solo lo spettacolo finale, ma tutto il percorso – anche breve nel suo sviluppo temporale – che le ha dato vita, perché ciascuno dentro quel progetto possa avere occasioni di partecipazione multiple e differenziate. Per questo è davvero distintivo che le insegnanti conoscano potenzialità e competenze di ognuno e il funzionamento dei vari gruppi di lavoro che hanno predisposto oppure che si diano la possibilità di scoprire tutto questo proprio grazie alla fase di sperimentazione e costruzione insieme del prodotto narrativo finale. L’attenzione al processo di costruzione che tu hai evidenziato mi sembra poi “relativizzi” l’eccessiva rilevanza che spesso assume la rappresentazione pubblica per le famiglie, rendendola invece parte specifica di un progetto più articolato che nel suo sviluppo ha permesso tante forme di autorialità da parte dei bambini, delle quali lo spettacolo finale – per il quale nello specifico serve ad esempio un presentatore o un gruppo che svolga in scena un determinato ruolo – è solo uno dei tanti esiti possibili. Evidenzia la centralità della tessitura continua dei diversi contributi di tutti, mentre spesso la tendenza a giocare tutto in termini di performance individuale non facilita.

Alice: L’attenzione al processo di costruzione è davvero distintiva dell’approccio che propongo, come hai evidenziato. Muoversi insieme vuol dire certamente evitare di esporre il singolo in solitudine di fronte agli altri, ma significa soprattutto aprire alla ricchezza del contagiarsi. In questo modo a tutti è data la possibilità di mettersi in gioco su piani, ruoli, azioni differenti. Che poi è il lavoro tipico delle compagnie di teatro di ricerca. In seguito, attraverso il sostegno del conduttore che coglie, nella sperimentazione di azione, gestualità, presa di parola dei bambini, cose positive e interessanti da rilanciare a tutti, il prodotto diventa un esito anche esteticamente interessante, perché è importante restituire prodotti belli, curati, attenti. Non è detto che debbano essere particolarmente innovativi o rivoluzionari, ma devono essere curati. La promozione di una sensibilità artistica nasce anche da questo.

Silvia: Trovo molto interessante questo tuo ultimo riferimento al valore estetico che un prodotto deve avere sul piano della cura espressiva e artistica, come esito di un processo di ricerca tra bambini. L’altro aspetto riguarda l’attenzione delle insegnanti a trovare sintonizzazioni con il giusto livello di esposizione da proporre sia ai singoli che ai sottogruppi di lavoro nei quali i singoli sono sempre coinvolti. Una sintonizzazione che però non lascia i bambini al punto di partenza, ma apre il percorso di ciascuno e del proprio gruppo a spingersi verso “l’ignoto”, come hai definito lo spazio di esperienza e di competenza che ancora richiede investimento da parte delle insegnanti. Perché la scuola, se ha senz’altro il compito di valorizzare le competenze presenti, ha anche il ruolo culturale e la responsabilità di facilitare nuove esplorazioni. La formazione delle insegnanti è dunque una leva centrale del cambiamento sia rispetto alle proposte fatte ai bambini, sia rispetto a come la scuola comunica alle famiglie e alla comunità la complessità dell’intero progetto e non solo la scelta espressiva finale.

Alice: Abbiamo imparato in questi anni, con diversi gruppi[3] di insegnanti in formazione, a costruire un contesto – un set – che permetta un'esperienza teatrale a scuola. Questo ha significato sperimentare il teatro in un percorso formativo per educatori, rileggerlo in termini di apprendimenti teatrali e sociali, progettarlo imparando a condurlo con gruppi di bambini e a incrociarlo con il processo di apprendimento di ciascuna scuola.
Altro che capelli scompigliati!
Le educatrici impegnate nella formazione teatrale hanno attraversato un processo lungo e articolato. Una prima affermazione forse scontata ma necessaria per inquadrare la descrizione del percorso, riguarda il mandato formativo: si è puntato a imparare a giocare teatralmente, più che a produrre spettacoli. Si è investito su ciò che il processo teatrale genera piuttosto che sul suo momento di formalizzazione (lo spettacolo). Cosa però abbiamo tenuto caro del momento spettacolare? Nell'evento dello spettacolo acquisisce centralità la presenza del pubblico che è un elemento consustanziale al teatro. Nel laboratorio di teatro abbiamo introdotto il pubblico come funzione interna: a turno i bambini e le educatrici facevano da pubblico ai lavori dei compagni. Non abbiamo rinunciato ad esso, ma lo abbiamo immesso come posizione possibile entro il dispositivo stesso del laboratorio. Questo ha favorito l'inclusione e addomesticamento[4] alla disciplina teatrale di bambini inizialmente restii e giocare come attori davanti allo sguardo dei compagni e delle educatrici.

Silvia: Hai fatto riferimento a un percorso formativo lungo e articolato. Puoi raccontarci più nel dettaglio la proposta

Alice: È vero. È necessario un percorso formativo lungo e articolato, ma questo non significa che non possa essere piacevole e leggero e credo che per molti insegnanti sia stato così. Da un lato l’agire, la mimesi, il raccontare, il giocare sono delle forme che non hanno bisogno di una scuola specifica, perché sono esperienze che abbiamo già incontrato da qualche parte nella nostra vita, quando eravamo bambini. Sono disponibili e vanno semmai risollecitate, riscoperte. Ma per proporre ai bambini in chiave educativa e formativa un’esperienza d’arte è importante conoscere quell’arte andando più a fondo e oltre il pur prezioso e irrinunciabile bagaglio personale. È vero che l’arte del teatro ha una radice, una matrice potremmo dire, fortemente legata al gioco, ma rispetto al gioco è molto raffinata nelle sue forme e nelle possibilità di organizzazione dello spazio, della relazionalità, dei rapporti tra scenografia, attori, pubblico. È veramente un’arte, ma è un tipo di arte che non si studia nei percorsi professionalizzanti, Un’insegnante non arriva con una formazione specifica teatrale. È più facile che abbia fatto musica, disegno, storia dell’arte, ma la formazione teatrale non rientra nelle cose che il percorso formativo di base propone. Resta semmai esplorazione individuale legata a un personale interesse.
Quindi il primo anno di formazione è quasi sempre dedicato a un’introduzione a quest’arte, a una grammatica e alfabeto teatrale di base. L’attenzione è nel capire prima di tutto cos’è il teatro e poi perché propongo questo modo particolare di fare teatro. Si tratta quindi di iniziare a ragionare su una arte e sul suo funzionamento interno, ma anche su come lo possiamo andare a leggere in termini sociali e pedagogici, che sarà il focus del secondo anno di lavoro.
Gli incontri formativi del primo anno sono così dedicati a “fare” teatro. Per conoscere un'arte non c'è che da praticarla, sperimentarla su di sé. Si tratta di acquisire “sensibilità” rispetto alle qualità dello spazio, di coltivare l'espressività corporea, di costruire drammaturgie insieme, di imparare a improvvisare. Ogni lezione termina con una rilettura di ciò che è stato fatto per svelarne l'architettura e per dare spazio alle osservazioni. Le traiettorie di rilettura riguardano gli apprendimenti artistici e quelli metodologici, al fine di portare a consapevolezza ciò che è stato vissuto, per farlo proprio e rivisitarlo attraverso un passaggio riflessivo collettivo. La fase di rilettura è importante anche per riconoscere ciò che si è fatto in quanto adulti (non facciamo finta in formazione di essere dei bambini, ovviamente) e creare dei ponti per un adattamento efficace ai gruppi di bambini.

Silvia: Come si lega tutto questo alla progettazione di ciascuna scuola, sia annuale che periodica, ai processi di apprendimento e agli indicatori?

Alice: Sono questi i focus del secondo e terzo anno dedicati alla progettazione di laboratori o sessioni di lavoro teatrale con i bambini, anni nei quali la riflessività prende fortemente la scena. Le progettazioni si ispirano alle esperienze fatte nella prima parte del laboratorio, ma non solo: nel momento in cui sono chiari i principi dell'arte, le insegnanti sono già in grado di progettare contenuti e modalità in autonomia e il formatore fa dunque da mentore. Introduciamo i riferimenti alla progettazione che intrecciamo con i processi di apprendimento e nel terzo anno leghiamo tutto questo al focus della conduzione. Ci si chiede come, alla luce del processo e degli indicatori individuati da ciascuna scuola, possa essere più efficace o meno un certo tipo di conduzione da parte dell’insegnante. Ci si sperimenta prima attraverso conduzioni protette all’interno della formazione, dove propongo esperienze in piccolo gruppo. Le educatrici preparano le conduzioni teatrali per le colleghe e durante le ore di formazione si mettono in prova queste scalette. La conduzione delle colleghe, nella situazione protetta data dall'essere un gruppo in formazione, serve per avere lo sguardo della formatrice di supporto nell'analisi della modalità e degli stili di conduzione di ciascuna. In questo modo posso dare delle indicazioni perché, attraverso il confronto insieme, le insegnanti diventino più consapevoli del proprio stile aprendo una riflessione su cosa è possibile variare.
Con il percorso di Riva del Garda, dove abbiamo potuto approfondire ulteriormente il percorso formativo con un quarto anno si è lavorato molto sul nutrimento dell’immaginazione dell’insegnante ed è in questa occasione che ho introdotto – come dicevamo poco fa – gli albi illustrati di un certo tipo o spunti pittorici o alcune scelte musicali aprendo a tutto ciò che proviene dalla produzione culturale umana e non solo con riferimento a quella dedicata espressamente all’infanzia. In questo senso dicevo che il percorso si configura come lungo e articolato. Ma sempre sotto l’egida del gioco, dell’agire e del riflettere, del progettare, modificare, ricollocare.Uscire e andare oltre lo specifico momento del laboratorio espressivo è molto potente e una formazione così articolata regge e sostiene.


 

Silvia: Torno ancora su un elemento che trovo interessante. Hai fatto riferimento all’uso del pubblico interno, durante la formazione tra insegnanti ma anche rispetto alle proposte di laboratorio teatrale a scuola, come occasione di fare esperienza nello stare davanti a un pubblico, ma anche di essere pubblico. In che termini questa duplice prospettiva, questa duplice accezione di partecipazione, può essere utile ai bambini e in particolare come questo essere “pubblico Interno” può diventare generativo rispetto al progetto che si sta costruendo insieme?

Alice: La questione dell’incontro col pubblico è strutturante la dimensione espressiva del teatro. C’è teatro se c’è un pubblico. Il pubblico c’è sempre. L’essenza del teatro è connaturata al fatto che l’azione narrativa è dedicata a qualcuno con l’intenzione di attivare uno scambio. L’amore per questo scambio nutre il teatro e fa sì che il teatro sia migliore se pensiamo, o se lo mettiamo nel nostro orizzonte immaginario, e se effettivamente abbiamo un pubblico fisicamente presente. È per questo che nei laboratori introduciamo il pubblico in varie forme che vanno rese evidenti ai bambini. Del resto essere pubblico è una funzione che i bambini hanno molto chiara. Vendere o acquistare biglietti infatti è uno dei giochi spontanei che nascono attorno al tema del teatro. Agire il ruolo di pubblico permette di osservare, di imparare. Permette di riflettere. Quando siamo pubblico siamo visitati da cose che ci muovono. È una funzione che non è né di passività, né intrattenimento. È sosta nella quale siamo chiamati a dare sguardo a chi fa. È un momento formativo anche questo che tiene insieme chi agisce sulla scena e chi osserva. Ed è rilevante dare parola a ciò che il pubblico vede. Su questo aspetto – il dare voce al pubblico – insisto tanto, ma non per mettere a verifica né per dare un giudizio. Mi interessa aprire un dialogo, una concertazione tra le parti, tra l’intenzionalità comunicativa di ciò che accade sulla scena e le immagini che nascono in chi partecipa come fruitore di quella scena. Il teatro non è solo narrazione e descrizione, ma è soprattutto azione. Ci dobbiamo allora chiedere non se nella rappresentazione o nel ruolo agito dagli attori sulla scena sono giuste o sbagliate alcune scelte, ma che significato ha quello che è successo e che potenzialità di ulteriore sviluppo ha. Cosa è successo a me cosa ho sentito, cosa ho scoperto come spettatore?
Se i bambini – come è successo in una delle esperienze raccontate dalle insegnanti in formazione – i bambini volevano rappresentare delle onde e gli spettatori invece hanno avuto l’impressione che si trattasse di vermi, la domanda evolutiva e formativa è: “Ma se voi volevate fare onde e le onde a questo pubblico non sono arrivate, che cosa potete cambiare di quello che avete proposto?” È qui la crescita, l’apprendimento, la spinta a fare meglio. Spinta che nasce però – e questo è davvero centrale – da un dialogo con quanto gli altri hanno potuto cogliere e non dal confronto con una forma data che è nella mente del regista, che può essere la maestra o il bambino leader o chi pensa di avere titolo per dire qual è la forma dell’onda. Nasce da una co-costruzione tra le parti ed è quindi importante, quando l’insegnante decide di far parlare il pubblico, che ci sia consapevolezza di quale tipo di parola può essere. Per la scuola c’è poi il passaggio su che cosa significa tutto questo in termini sociali o pedagogici. Cosa abbiamo imparato come insegnanti dalla partecipazione messa in atto dai bambini attraverso il nostro progetto di laboratorio teatrale? Come dicevi tu prima, quali occasioni di partecipazione nuove, alternative, divergenti ha aperto per ciascuno di loro e per il gruppo nella sua interazione? Di che cosa c’è bisogno per quel gruppo, cosa serve a quei bambini dentro quel processo di apprendimento che stiamo promuovendo?
Per questo lo spazio del racconto di ciò che avveniva in classe è sempre stato presente nell'iter formativo, anche attraverso la produzione di materiale di documentazione che ci ha consentito di vedere finemente, di analizzare con attenzione ciò che accadeva durante la sperimentazione in aula.

Silvia: quali tracce e tessiture hai potuto ricostruire attraverso le documentazioni?

Alice: Nelle documentazioni ho visto poesia, vitalità, sfide educative, bambini normalmente fra virgolette “periferici” diventare protagonisti, piacere e gioia partecipare, belve fantastiche, scuole intere cambiate e in ricerca. Ho visto la capacità di trasformarsi. Tutti.

 

 

 

 

 

 


[1] da Enciclopedia Treccani: s. m. Nel linguaggio degli archeologi, nome dato a singolari reperti di pietra dura (selce o ossidiana), variamente scheggiata in forma di uomini, di animali, di figure astratte, per lo più stravaganti, che non sembrano avere avuto scopo pratico ma significato sacrale e simbolico, di cui non si è tuttavia saputo dare un’interpretazione soddisfacente: gli e. dell’antico Egitto; gli e. della civiltà maya.

agg.  Fuori centro, bizzarro. Ci ricorda l'indisciplina non come assenza di regole, ma come agire cercando una disciplina propria e non imposta, non definitiva, ma contestuale.

[2]“Bambino, poiché quando giochi la tua azione si pone oltre la conoscenza meramente discorsiva, tu intuisci ma non descrivi, non calcoli e ti fermi ad osservare, facendo durare l'attesa più di quanto debba durare. Posso pensare che giocare per te è contemplare” C. Guidi, L. Amara, Teatro infantile. L'arte scenica davanti agli occhi di un bambino, 2019, Luca Sossella Editore.

[3]Alcuni dei circoli con cui si è lavorato su progetti pluriennali: Mezzolombardo, Alta Valsugana, Arco di Trento, Riva del Garda, Cles 1, coinvolgendo anche le educatrici del posticipo.

[4]Nel senso proposto da A. de Saint-Exupéry ne Il piccolo principe

 


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